venerdì 30 gennaio 2015

Materialismo storico e filosofia



I politici di sinistra sembrano riconoscere come imperativo categorico l’esecuzione di compiti storici. Alcuni critici hanno spiegato questo atteggiamento con l’influsso esercitato su Marx da Hegel, dal principio di questi secondo cui il reale è il razionale. Si tratta però di una spiegazione insostenibile: il culto della storia è una conseguenza del materialismo storico, propriamente del fatto che esso rifiuta il presente e vive nel futuro. Allo stesso modo, presumendo di aver divinato dove vada la storia, il politico di sinistra concepisce l’azione politica non come realizzazione nel presente dell’interesse generale, ma come eversione del presente a vantaggio del nuovo.
La necessità storica (il destino degli antichi) è il movimento per cui un cerchio di condizioni, raggiunta silenziosamente la sua completezza, diviene un’esistenzaimprevista; questa imprevedibilità è l’essenza della necessità: la libertà la conosce solo a posteriori, e lo fa non perché possa modificarla, ovviamente, ma per acquisire consapevolezza della propria profondità. Invece il rifiuto del presente è anche rifiuto dell’imprevedibilità dal futuro, e immagine della storia come di un unico fiume in movimento, di cui si può aumentare la velocità suscitando l’azione rivoluzionaria delle masse o assecondando le iniziative dei poteri forti. L’onore del materialista storico consiste nell’accelerare il moto del fiume; egli dunque risponde non più alla politica, ossia al gioco delle libertà sostanziate o almeno ispirate da leggi universali, ma a un destino superiore alla stessa libertà; e l’etica gli appare come una velleità piccolo-borghese, irrilevante per colui che ha già conosciuto il destino e si è messo dalla sua parte; lo stato costituzionale, la forma per cui l’individuo in quanto tale è persona, gli appare come una sovrastruttura insincera, finalizzata a creare negli schiavi l’illusione della libertà che li rende più docili. Poiché il materialista storico agisce non politicamente, come libero rispetto ad altri liberi, ma storicamente, come strumento della necessità assoluta, il presente non ha diritto davanti a lui; così, nell’applicazione estrema di quest’ottica, Stalin poteva non solo privare i kulaki della proprietà della terra, ma sterminarli, privarli anche della proprietà del loro corpo. Così i comunisti italiani potevano tradire apertamente il loro fine politico, cioè la difesa degli interessi dei lavoratori all’interno dello stato italiano, per continuare a sentirsi al servizio del destino che con la globalizzazione aveva rivelato una nuova sua età.
Nella sua pretesa di conoscere la legge della storia così da poterne accelerare il corso, il materialista storico fa della stessa storia un ambito della natura, concepisce la libertà come un gioco illusorio della necessità, regredisce cioè al fatalismo. Questa pretesa e il conseguente naturalismo non sono hegeliani. Hegel ha ben chiara la distinzione tra ciò che semplicemente è e ciò che è giusto. In riferimento al diritto positivo, egli riconosce che tutte le leggi positive, anche le più disumane come quelle romane sui debitori, trovano una spiegazione nei contesti storici in cui sono diventate vigenti; ma la conoscenza di queste spiegazioni non ne costituisce in alcun modo la giustificazione; anzi, proprio il fatto che trovano una spiegazione soltanto nel loro contesto storico ne prova la caducità e dunque l’aberrazione etica: con la fine del contesto che le genera finisce anche la loro esistenza empirica; esse restano come relitto di un passato terribile che può suscitare forse un interesse storiografico, ma certo non più filosofico.
La distinzione tra il semplice essere e la sua legittimità etica è distinzione tra la storia e la filosofia: mentre la storia accerta e spiega il semplice essere, solo la filosofia può mostrarne la giustizia. La filosofia ha questo potere non perché usurpi prerogative teologiche (essa è la fine della teologia), ma perché il suo metodo consiste nell’esposizione della verità attraverso il dispiegamento sistematico della critica. La mentalità comune concepisce ogni cosa buona nel suo genere; il metodo hegeliano trova il difetto, ossia la contraddizione, proprio nel genere; in questo non fa che generalizzare la scoperta kantiana dell’antinomia delle idee cosmologiche. Hegel va però oltre: la contraddizione è l’annullarsi del genere; ma il genere annullato non è il vuoto bensì un nuovo genere in cui la contraddizione del primo è risolta: questo esito positivo della dialettica è la speculazione. Anche il nuovo genere è contraddittorio e dunque si annulla a sua volta. Questo annullamento non è però identico al primo: nega il secondo genere che è il negativo del primo, dunque RIpropone il primo. La circolarità che così si stabilisce è la verità in senso enfatico, come unità di essere e dover-essere. Per esempio, il torto nega la legge astratta, ma è un’esistenza contraddittoria, negativa: è la volontà che si realizza annullando la volontà; la sua esistenza sembra libera, assoluta, ma in effetti è uno scivolare nella pena ­– risveglia le Erinni; il contrappasso è dunque la verità dell’intero movimento: è un torto che cancella il torto, un’azione che nell’eliminare il suo negativo elimina anche la propria negatività e ripristina la giustizia. Mentre il materialismo storico si limita a concepire la storia come il procedere di un fiume verso un fineindeterminato, Hegel ha concepito la verità come ritorno dal procedere. È dunque erroneo pensare insieme ai marxisti che Hegel abbia sostenuto che la storia si sviluppi in base alla coscienza e alle sue idee, anziché in base all’essere cosciente, alla struttura materiale; la verità è invece che la storia non ha nessuno sviluppo organico immanente, ma nella storia e nonostante la sua casualità si sviluppa la libertà, in base all’autocritica immanente dell’idea.
Viceversa, il materialismo storico non è, né purtroppo vuole esserlo, una filosofia della storia, ossia esso non è valutativo. L’indicazione che la politica e la cultura non abbiano un’evoluzione propria, ma seguano quella dell’economia, gli preclude il diritto di poter discriminare la giustizia e la verità degli oggetti storici. Negare infatti alla politica e alla cultura l’evoluzione propria, fare dei progressi scientifici ed etici un semplice riflesso dei progressi del modo di produzione, oltre a trascurare che il modo di produzione si evolve anche in base alla tecnica, che progredisce solo se progredisce la scienza, che quindi è fondato da ciò che deve fondare, equivale ad affermare che la politica e la cultura non progrediscano per la critica, dunque in base al criterio di giustizia e di verità, ma perché si adeguano al contesto storico-materiale, ossia che non ci sia scienza, ma solo ideologia e che siamo tutti nell’oscurità. Allo stesso modo, se, come il termine «materialismo» suggerisce, la struttura economica è cieca natura, allora i passaggi da un modo di produzione all’altro non sono salti dalla necessità alla libertà, ma sono come lo svilupparsi di una nuove specie viventi a partire dalla selezione naturale, uno sviluppo indifferente alla volontà umana, perché vi si va da una forma animale a una diversa forma animale. Le successive ibridazioni del marxismo con il positivismo e addirittura con il naturalismo nietzschiano non sono dunque una degenerazione, ma è nella natura stessa della concezione di Marx rifiutare la distinzione tra verum e factum, tra filosofia e storia naturale. Come il neo-hegelismo crociano, anche il marxismo fa della storia l’unica scienza e solo per una fortunata incoerenza non considera i concetti scientifici come pseudo-concetti.
È paradossale che entrambe queste scuole che pretendono di avere in Hegel un punto di riferimento, abbiano trascurato che per Hegel la storia si identifica con la conoscenza solo empirica, che certo applica categorie al suo oggetto, ma non può arrivare a conoscenze universali, le uniche che abbiano dignità scientifica, le uniche che siano suscettibili di giustificazione filosofica. L’equivoco è nato dall’incapacità di staccarsi dal pregiudizio dell’immobilità delle essenze logiche: poiché sembra evidente che la logica segua il principio di identità, sia cioè tautologia, il moto del concetto non può essere logico, ma un debito della logica dall’empiria – questo sostenne Trendelenburg e a questo si sono attenuti tutti i critici di Hegel, che in questo modo sono arretrati anche rispetto a Kant. A Hegel è invece evidente il contrario: poiché la contraddizione è un dato logico ineludibile la logica stessa,prima della sua applicazione alla natura e allo spirito, non è identica, ma ha l’inquietudine propria dell’attività vitale. Dunque a prescindere dall’empiria storica, l’uomo supera la sua naturalità e si giustifica in virtù della sua anima logica: essa, e nulla di mistico, è la verità della storia, ma soltanto la sua verità, non la causa degli avvenimenti storici, tanto meno il fine cosciente degli attori storici. Dunque non esiste nessuna concezione idealista della storia che sia contrapposta a quella materialista; esiste una considerazione filosofica che nel gioco delle lotte di classe, delle guerre e delle paci scorge anche un progresso della libertà politica conseguente al suo carattere autocritico. Questo progresso, riscontrabile non dalla storiografia, ma solo dalla filosofia nella storiografia, è la sola giustificazione della storia, una giustificazione che non riguarda gli avvenimenti e che non risarcisce in alcun modo le sofferenze (è la storia stessa, nella sua maniera imperfetta e casuale, a farlo), ma soltanto consente a noi di non volgere via lo sguardo dalla storia, travolti dal senso di nausea.